giovedì 2 giugno 2022

I Confini nelle Relazioni Umane

"Io non posso fare della libertà il mio scopo, se non faccio lo stesso per quella degli altri" J. P. Sartre

confini psicologici esistono nelle Relazioni interpersonali e a differenza di quelli fisici che sono visibili (si pensi alle cartine geografiche), quelli che accadono nella comunicazione  interpersonale hanno una ricaduta psicologica e sono invisibili. 


Permettono alla persona uno scambio con l'ambiente che può risultare nutriente o tossico, come la cellula ha la propria membrana per permettere uno scambio con l'ambiente extracellulare. L'ambito biologico diventa il ponte, la metafora per comprendere ciò che accade a livello invisibile nei rapporti umani che ha delle ricadute nel comportamento e nella qualità di vita delle persone. 
Il confine della persona è esistente e configura il senso della propria identità e in una modalità disfunzionale può essere valicato in modo non opportuno con modalità comunicative che riguardano la pretesa, l'insistenza o l'accusa. Per far si che la propria e altrui membrana psichica rimanga solida, nella relazione umana è importante entrare nelle vite degli altri in punta di piedi e con rispetto. Se questo non accade uno stile assertivo sarà utile da utilizzare come risposta all'Altro. 

Quando i confini si annullano tra persone?  I confini si annullano nel rapporto sessuale o nella preghiera mistica in cui l' Anima si fonde con il Tutto (Dio/Natura). Oppure possono annullarsi in relazioni invischianti senza confini o con confini lassi  in cui vige la confluenza o simbiosi in cui la persona non sa più quali sono i suoi bisogni e desideri, perché impegnata a compiacere l'altro e a svalutare le capacità adulte dell'altro di vivere autonomamente la propria vita.  

Come la persona può mantenere un suo confine per relazionarsi in modo sano con l'ambiente? Tramite una buona autoalleanza, che è il primo atto d' amore che possiamo dare a noi stessi. A tal proposito suggerisco come pratica, la "Mindfulness compassion" dello psichiatra Paul Gilbert che può essere una buona lettura e pratica meditativa.

venerdì 19 ottobre 2018

L'autobiografia come cura di sé


L’autobiografia o la narrazione retrospettiva di sé, è una modalità di formazione e cura, in cui narratore e protagonista coincidono. Essa può essere particolarmente utile ed efficace in una serie di sedute di counseling individuale o di gruppo. Ecco la definizione che né da Philippe Lejeune ne “Il patto autobiografico”: “Racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità” (Philippe Lejeune, “Il patto autobiografico”, 1986, p.12, Bologna, Il Mulino). La parola autobiografia, auto (se stesso), bio (vita) e grafia (scrittura), rimanda al lavoro che la persona fa su di se attraverso il mediatore artistico della scrittura.
La scrittura è mediatore grazie alla tecnologia (qui la parola tecnologia ha il significato di applicazione pratica di una determinata conoscenza) propria della parola. Attraverso la scrittura l’uomo interpreta e significa la propria realtà. Scrivere significa dare forma alla propria vita e a quei frammenti e polisemie del proprio Sé, al fine di ritrovarsi, per dare un’integrazione e coesione alla propria identità, inevitabilmente estroflessa nella quotidianità del mondo. La scrittura, momento di pausa e di ritiro dal mondo, è un vero processo euristico in grado di trasformare il vissuto e ri- significarlo; questo è possibile grazie alla distanza che si viene a creare tra il sé narrato e il sé narrante (bilocazione cognitiva).
La scrittura autobiografica è capace di cambiare la rappresentazione dei fatti biografici, non i fatti in sé, che rimangono tali nella storia di vita della persona: “Quando ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, creiamo un altro da noi. Lo vediamo agire, sbagliare, amare, soffrire, godere, mentire, ammalarsi e gioire: ci sdoppiamo, ci bilochiamo, ci moltiplichiamo. […]Per rientrare in se stessi, per rimettere in ordine le tessere scompigliate della sensazione di panico emergente, il rimedio è costituito dall’imparare, senza paura, a sdoppiarsi e moltiplicarsi. Soltanto nel momento in cui diventiamo capaci di questo proviamo l’emozione di rinascere, perché assistiamo alla nascita dei molti io che siamo stati, li seguiamo nei loro primi passi, li vediamo confondersi tra loro senza più continuità nei passaggi che hanno attraversato” (D. Demetrio, “Raccontarsi”, p. 12 - 83, 1996, Raffaello Cortina, Milano). La scrittura come contenitore e deposito di vissuti, permette di allargare e rivitalizzare il proprio “spazio interno”, luogo ove è possibile fare silenzio, creare un “vuoto fertile” ed ascoltarsi per generare, a partire da lì, senso e significato rispetto al proprio vissuto agito o fantasticato, capace di ripensare il presente per progettare il futuro: “Noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione dei nostri genitori[…]Ma poi c’è un’altra nascita che non è quella recepita dall’esterno e che è precisamente la nascita che noi ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia, ridefinendola con la scrittura che stabilisce il nostro stile secondo il quale noi esigiamo di essere compresi dagli altri. E’ questa la nascita che noi, attraverso la scrittura, ci diamo da noi stessi” (A.G. Gargani, “Il testo del tempo”, 1992, p. 5, Laterza, Bari).
L’identità della persona è in continua trasformazione, in cui narrare è sia riflettere sul passato per recuperare trame obliate, latenti o rimosse, sia mutare il presente sulla scorta di esso, immaginando delle alternative, strade e percorsi inediti nella biografia della persona.
Il processo attivato dall’autobiografia, venendo a contatto con la molteplicità dell’io che siamo stati, “ridimensiona l’Io dominante e lo degrada a un io necessario che possiamo chiamare l’io tessitore, che collega e intreccia; che, ricostruendo, costruisce e cerca quell’unica cosa che vale la pena cercare costituita dal senso della nostra vita e della vita” (D. Demetrio, “Raccontarsi”, p. 14, 1996, Raffaello Cortina, Milano). Ascoltare la propria storia dentro di sé nel proprio dialogo interno è un passo necessario, è possibile così vedersi come in uno specchio, per riconoscersi e dare corpo come in un’armonia musicale alle tante note presenti nel proprio Sé: “Si impara dall’analisi della propria storia, si impara apprendendo da se stessi e si inizia a coltivare un vizio che ci porta, se lo desideriamo, ai nostri anni adolescenti: quando il diario, la poesia, la novella, senza che noi lo sapessimo, già segnalavano quella che poi, nell’età degli anni maturi e senili, si sarebbe trasformata in passione autobiografica[…]Ma erroneo e deprimente è vivere l’autobiografia come farmaco per liberarsi del proprio passato prendendone le distanze. La vera cura di sé, il vero prendersi in carico facendo pace con le proprie memorie inizia probabilmente quando non più il passato bensì il presente, che scorre giorno dopo giorno aggiungendo altre esperienze[…] entra in scena. E diventa luogo fertile per inventare o svelare altri modi di sentire, osservare, scrutare e registrare il mondo dentro e fuori di noi” (D. Demetrio, “Raccontarsi”, p. 15, 1996, Raffaello Cortina, Milano). L’operazione di rimembrare il passato, grazie al pensiero autobiografico, permette di “fare tregua” e rappacificarci con esso e tale esercizio ha efficacia se diviene un compito quotidiano. Il counselor può compiere una riorganizzazione del campo narrativo del cliente: “In questo senso parliamo di narrazione creativa; attraverso la narrazione della storia, non solo vengono comunicate le proprie emozioni, ma viene favorita anche la riconciliazione di parti frammentate del sé; il nominarle e il definirle produce l’acquisizione di consapevolezza, punto iniziale per un’evoluzione che coinvolge l’intero sistema di sé attraverso il ri-orientamento” (Oliviero Rossi, “Lo sguardo e l’azione”, p. 50, 2009, Edizioni Universitarie Romane, Roma).
La cura di sé, cornice (frame) che ospita l’autobiografia, è una pratica precipua dell’uomo, come ci ricorda Umberto Galimberti: “Mentre l’animale può anche non conoscere se stesso perché la sua vita è regolata dall’istinto, l’uomo, privo com’è di istinti, come ci ricorda Platone, è delegato alla cura di sé. La carenza istintuale, infatti, se da un lato svincola l’uomo da qualsiasi comportamento codificato, dall’altro lo libera in quello scenario del possibile dove, se vuole evitare di perdere la propria vita prima ancora che giunga la morte, deve reperire la propria misura” (U. Galimberti, “La casa di psiche”, pp. 403 - 404, 2008, Feltrinelli, Milano). 
Michel Foucault ha definito la cura di sé immettendola nello spazio delle “tecnologie del sé” che sono così da lui quadripartite: “1)Le tecnologie della produzione, dirette a realizzare, trasformare o manipolare gli oggetti; 2)Le tecnologie dei sistemi dei segni, significati, simboli, significazioni; 3) Le tecnologie del potere, che regolano la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi o domini esterni, dando luogo a un’oggettivazione del soggetto;
4) Le tecnologie del sé, che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima, dai pensieri al comportamento, al modo d’essere e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato di felicità, purezza, saggezza, perfezione, o immortalità” (M. Foucault, “Tecnologie del Sé. Un seminario con Michel Foucault”, 2005, Bollati Boringhieri, Torino, p.13.)
La cura di sé (“epimeleia heautou” – la cura di se stessi) è un’attività pratica ed educativa,  non astratta, tantomeno medica (“Epimelesthai” è l’attività del contadino che si occupa dei campi o del re che si prende cura dei cittadini e della città), è piuttosto cura di sé come cura dell’anima (“epimeleia”): “Nei confronti di se stessi l’epimelia implica un preciso lavoro. Richiede del tempo. Uno dei grandi problemi di questa cultura di sé consiste appunto nel fissare, nell’arco della giornata o in quello della vita, la parte che è opportuno consacrarle” (M. Foucault, “La cura di sé”, Storia della Sessualità 3, p. 54, 2001, Feltrinelli, Milano). Nell’antichità greco – romana,  tali pratiche consistevano nell’esame di sé, nella consuetudine di scrivere ad amici per narrarsi, in indicazioni su come amministrare il proprio corpo: “possiamo richiamarci allora a un fenomeno spesso evocato: l’emergere, nel mondo ellenistico e romano, di un “individualismo” volto ad accordare uno spazio sempre maggiore agli aspetti “privati” dell’esistenza, ai valori del comportamento personale e all’interesse che si nutre per se stessi. (M. Foucault, “La cura di sé, p.45, Feltrinelli, Milano, 1993).
Oggi ha preso forma in modo esemplare l’autobiografia, capace di soddisfare il bisogno narrativo insito nell’uomo, viaggio e metodo formativo nell’educazione degli adulti, spazio di conoscenza ed evoluzione personale e come pratica, presente nella cura clinica e capace di trasformare se stessi: “Il momento in cui sentiamo il desiderio di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità. Poco importa che ciò accada a vent’anni piuttosto che a ottanta. E’ l’evento che conta, che sancisce la transizione a un altro modo d’essere e di pensare. E’ la comparsa di un bisogno che cerca di farsi spazio tra gli altri pensieri, che cerca di rubare un po’ di tempo per occuparsi di se stessi  (D. Demetrio, “Raccontarsi”, p. 21, 1996, Raffaello Cortina, Milano).
L’uso dell’autobiografia nel counseling, attraverso il processo di distanziamento emotivo che crea, è in grado di spezzare la limitante coazione a ripetere che crea sofferenza nel soggetto, poiché è l’effetto esternalizzante della narrazione che è capace di porre una disidentificazione tra la persona e il problema, cosicché quest’ultimo diviene  un oggetto proprio, visibile e affrontabile. La persona grazie alla scrittura (si veda D. Demetrio, “La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali”, Raffaello Cortina, 2008) è in grado di guardarsi con uno sguardo nuovo.


sabato 4 giugno 2016

Metafore dell'Altro

La Relazione
L’Altro come categoria relazionale è leggibile attraverso varie metafore che sono in grado di restituire la complessità della relazione umana. La mappa del territorio dell’Altro, può essere creata, formata e allargata con nuove o usuali o vecchie metafore più o meno esplicite alla consapevolezza dell’individuo, spesso presenti in modo implicito e tacito nel linguaggio quotidiano.
La metafora quando la usiamo (spesso in modo automatico) è un meccanismo che svela alcuni aspetti di un determinato oggetto, ma al contempo ne vela altri. Dunque l' uso consapevole di più metafore permette di vedere meglio, di allargare lo sguardo su un determinato fenomeno per avere una visione meno parziale e più ad ampio respiro.
Sapere che stiamo usando una metafora permette di allargarla, cambiarla, così da poter modificare i percorsi cognitivi/ di pensiero, di visione del mondo della persona e anche poi di azione nel mondo.
È possibile giocare con le metafore attraverso un' attivazione tra la facoltà mentale dell' immaginazione e quella  della razionalità.
Quando la metafora si "letteralizza" (dunque si sclerotizza) può diventare pericolosa, subdola, perché è presente nel tessuto linguistico, ma non la riconosciamo più nel linguaggio parlato.
Identificarla e riconoscerla, integrarla con più metafore, permette di pensare l' Uomo, le relazioni, il mondo, l' Essere, diversamente.  
Ecco qualche metafora su l 'Altro, un oggetto metaforico per certi versi "imprendibile" poiché soggetto e non oggetto/cosa da utilizzare nel mondo:

•  L' Altro è uno Specchio Pulito e riesce a rispecchiarmi nella mia totalità.
Grazie allo sguardo rispecchiante dell' Altro vedo me stesso nelle mie potenzialità/risorse e anche nei miei limiti, nelle mie aree da migliorare.

L ' Altro può essere uno Specchio Non Pulito.
L’Altro mi rimanda immagini di me che non mi appartengono: le sue risonanze, i suoi doverismi, i suoi valori culturali, i suoi bisogni. 
Le sue proiezioni inconsapevoli  possono di fatto ostacolare il rispecchiamento. 

L' Altro è un Contenitore delle mie proiezioni/identificazioni automatiche e inconsapevoli ovvero di parti di me non accettate, non viste, non accolte, connotate emotivamente dalla mia rabbia o aggressività, dalla mia frustrazione, dalla mia idealizzazione, o di parti buone di me: del mio entusiasmo, del desiderio di crescita condivisa.

• L' Altro è un Universo tutto suo che è alterità Assoluta (nel significato latino "sciolto da"), mistero rispetto a me e al contempo è parte di me (l' Altro sono io), sintesi dialettica tra queste due polarità.

L' immagine interna dell' Altro (creato con l'attribuzione di giudizi, pensieri, emozioni) è una copia parzialmente fedele dell' Altro - reale.
L' Altro - reale può a volte sorprenderci con la sua evoluzione personale, altre volte lo vedremo fermo nel punto dove lo abbiamo lasciato (la struttura caratteriale permane intatta).
Altre metafore possono aggiungersi  a quelle sopra esposte e potete associarne di nuove  per descrivere il territorio semantico dell’Altro.

Vi lascio con una domanda filosofica, "altra" rispetto al tema dell' Altro che apre nuove domande e sentieri di riflessione in merito al tema del linguaggio:
• Il linguaggio e le lingue naturali che usiamo rispecchiano fedelmente la Realtà/l ' Essere e le sue strutture? (posizione realista)  
• Il linguaggio penetra e ha un legame naturale con la realtà (e dunque è possibile fare metafisica in quanto è presente una specularità tra linguaggio/pensiero e realtà) o essendo per sua natura convenzionale e non naturale (l ' accordo tra il segno, l' oggetto o significante e il significato è arbitrario) è disancorato con essa (posizione nominalista, dunque la metafisica rimane un bisogno profondo e naturale nell' uomo, ma è una strada infeconda in quanto tra linguaggio / pensiero e realtà/Essere non vi è accordo)?

Vi auguro una buona domenica,

Dott. Andrea Duranti.


giovedì 10 settembre 2015

L’emozione dell’ invidia può essere una mia alleata di crescita?




L’esistenza è forza che può conservarsi solo espandendosi (Spinoza, “Etica”)

L’invidia è un’emozione umana che tutti più o meno nella vita provano o si permettono di sentire. Etimologicamente invidia viene dal latino in –videre, ovvero guardare di malocchio. Oggetto di tale sguardo è ciò che l’altro ha e che si vorrebbe avere ed è sostenuta dal seguente pensiero implicito:

Perché lui/lei si ed io no?

Quando l’emozione dell’invidia diventa passione essa diventa pervasiva e invalidante.

Intendo per passione un’emozione che si esaspera e che rende la persona dominata da tale vissuto. Quando un’emozione diviene passione,  la libertà di scegliere quale comportamento agire nell’ambiente di vita diminuisce sempre più, andando nel versante della coazione inconsapevole del comportamento.
Tipica manifestazione della persona che si identifica nella polarità dell’invidia, è che svilupperà emozioni come il  rancore e la rabbia e metterà in atto comportamenti quale la delazione, il pettegolezzo e  la maldicenza. Eloquente a tal proposito la frase di Esopo: “La volpe che non riesce a raggiungere l’uva perché troppo alta per lei, dirà che l’uva è cattiva”.
Spesso la persona può coprire l’emozione dell’invidia con l’emozione della  vergogna. Questo perché  uno dei messaggi impliciti presenti nei gruppi sociali, interiorizzato dal bambino nel suo processo di crescita,  è che l’invidia è un’ emozione negativa e come tale è meglio non sentirla e non provarla.
Occorre fare a questo punto, una premessa psicologica importante e significativa per vivere bene anche le emozioni sgradevoli. Essa può essere riassunta nel seguente messaggio:
“Non tutto quello che provo va agito nel comportamento, ma tutto ciò che sento è ok sentirlo e posso dargli spazio e ascolto nella mia casa interiore”.
Se  creo all’interno di me uno spazio di ascolto (e in questo vengono in aiuto le pratiche della Meditazione orientale –Vipassana o Zen  e della Mindfulness occidentale) per l’emozione dell’invidia quando la contatto, posso interrogarla e creare un ‘alleanza con lei per comprendere quale reale bisogno il mio corpo o la mia persona vuole  soddisfare grazie al segnale inviato da quest’ emozione.
Allora quali sono le domande che posso rivolgere all’emozione dell’invidia affinché diventi  un sentimento funzionale ed adattivo per la mia vita?

Vediamo le domande da poter rivolgere  a tale vissuto emotivo con contenuti cognitivi

Ascoltandolo e osservandolo posso chiedergli:

• Cosa mi stai dicendo?
• Cosa l’Altro ha o è, che io non ho e che vorrei avere od essere?
• Come posso mobilitarmi per fare e darmi ciò di cui ho bisogno?

Ecco che contattando tale emozione, osservandola e ascoltandola posso comprendere, ad esempio, che può esserci un desiderio di essere maggiormente realizzato nel lavoro o nella vita affettiva e posso iniziare a mobilitare le mie energie in modo costruttivo per raggiungere l’obiettivo per me necessario.

Quale è l’antidoto da sviluppare polare all’emozione dell’invidia?

Secondo l’Enneagramma (enneatipo 4) esso è la virtù dell’equanimità.
Equanime è secondo il dizionario Treccani colui che  è di animo sereno e imparziale in ogni caso e verso chiunque.
 Dunque sviluppare e coltivare equanimità significa riconoscere e divenire consapevoli che ciò che abbiamo ci basta nel presente e possiamo coltivare la fiducia di costruire frecce di speranza per il futuro.
A questo punto l’invidia,  non è più un ‘emozione o vizio che si incancrenisce nella psiche e nel corpo (somatizzazione tipica dell’invidioso è l’apparato digerente  con seguenti disturbi: coliti, diverticoliti, malattie epatiche) , non è più un guardare l’Altro con un moto di impotenza interna che mi arena in una rabbia implosa che non permette la mia  crescita  umana –,  ma diventa se emozione lavorata attraverso la consapevolezza, motore (sana competizione), energia per esprimermi e realizzarmi  e raggiungere ciò di  cui ho bisogno per esserci pienamente nel mondo.

Per chi vuole approfondire il tema ecco alcuni testi suggeriti:

• U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2003, Milano.
• L. Masi, Vizi capitali e psicopatologia, Paoline, 2015, Milano.
• G. Ventimiglia, Vizi. Esercizi per casa, Apogeo, 2007, Milano.


sabato 28 febbraio 2015

Intervista: la vita filosofica del filosofo pratico.






Oggi voglio presentarvi questo bel video di Will Heutz uno psicologo e filosofo pratico olandese che in questa intervista condotta da Ran Lahav (counselor filosofico di fama internazionale), presenta la Pratica filosofica e il valore della formazione filosofica per le persone. Il video "La vita filosofica del filosofo pratico" è contenuto nello spazio di Agora project, un contenitore di video - interviste  di vari Counselor Filosofici a livello internazionale. 
La filosofia viene descritta come amore della saggezza che diventa preparazione alla vita, momento riflessivo di mediazione tra se e la vita per poi stare nelle cose nell'immediatezza e nella percezione di pienezza del presente vissuto.
 L'autore indica il detto zen in cui  "il dito che indica la luna non è la luna", ovvero che il momento filosofico non è il momento della vita quotidana, ma è uno spazio personale e interpersonale tra il counselor filosofico e il cliente di preparazione alla vita. 
 Lo spazio relazionale che si instaura con il counselor filosofico e il cliente è un qualcosa che, al di là dei costrutti  psicologici creati per spiegarlo, appartiene al mistero della relazione umana.
Lo studio dei testi filosofici occidentali e orientali inoltre permette a chi ci si avvicina di farli propri e metabolizzarli e sviluppare così un 'attitudine filosofica alla vita oltre che ad affinare la mente. Possono diventare delle lenti che permettono di vedere il reale in modo diverso rispetto agli abituali schemi di lettura della realtà. 
L'autore suggerisce l'interazione feconda che può nascere tra la Filosofia e le Scienze Umane. Integrazione è la parola chiave che permette alle varie episteme di interrelarsi e fecondarsi vicendevolmente. 

Buona visione!

Qui in basso puoi cliccare sull'icona e vedere il video:



La vita filosofica del filosofo pratico
La vita filosofica del filosofo pratico




sabato 21 febbraio 2015

Perchè la Filosofia ci aiuta a vivere meglio

IL DISCERNIMENTO
L'ACCETTAZIONE AMOREVOLE
IL CAMBIAMENTO POSSIBILE


Ecco un bel video, chiaro e sintetico del Filosofo  Alain de Botton, che ha riassunto in alcuni punti come la Filosofia Occidentale nella sua storia ha evidenziato quei nodi che rendono gli uomini poco saggi.  

Ecco cinque punti, presenti nel video, che intrappolano gli esseri umani alla non fluidità rispetto alla realtà vissuta ed esperita nella quotidianità:

1)Non ci poniamo grandi domande.
2)Siamo vulnerabili agli errori del senso comune.
3)Siamo mentalmente confusi.
4)Abbiamo idee poco chiare su ciò che ci rende felici.
5)Ci facciamo prendere dal panico e perdiamo la visione d'insieme delle cose.

Tale breve focus è la base delle odierne Pratiche Filosofiche.
La Filosofia e la Pratica Filosofica sono un sapere e un fare che se vissuti in maniera incarnata permettono alle persone di allargare e modificare la propria visione del mondo.

Buona visione!

Qui in basso puoi cliccare sull'icona per vedere il video:



                          Perchè la Filosofia ci aiuta a vivere meglio







venerdì 18 aprile 2014

DESIDERATA

                                                      
                       Procedi con calma tra il frastuono e la fretta e ricorda quale pace possa esservi nel silenzio. Per quanto puoi, senza cedimenti, mantieniti in buoni rapporti con tutti. Esponi la tua opinione con tranquilla chiarezza e ascolta gli altri: pur se noiosi ed incolti, hanno anch’essi una loro storia. Evita le persone volgari e prepotenti: costituiscono un tormento per lo spirito. Se insisti nel confrontarti con gli altri rischi di diventare borioso ed amaro, perché sempre esisteranno individui migliori e peggiori di te.
Godi dei tuoi successi e anche dei tuoi progetti. Mantieni interesse per la tua professione, per quanto umile: essa costituisce un vero patrimonio nella mutevole fortuna del tempo. Usa prudenza nei tuoi affari, perché il mondo è pieno d’inganno. Ma questo non ti renda cieco a quanto vi è di virtù: molti sono coloro che perseguono alti ideali e dovunque la vita è colma di eroismo.
Sii te stesso. Soprattutto non fingere negli affetti. Non ostentare cinismo verso l’amore, perché, pur di fronte a qualsiasi delusione e aridità, esso resta perenne come il sempreverde.
Accetta docile la saggezza dell’età, lasciando con serenità le cose della giovinezza. Coltiva la forza d’animo, per difenderti nelle calamità improvvise. Ma non tormentarti con delle fantasie: molte paure nascono da stanchezza e solitudine.
Al di là d’una sana disciplina, sii tollerante con te stesso. Tu sei figlio dell’universo non meno degli alberi e delle stelle, ed hai pieno diritto d’esistere. E, convinto o non convinto che tu ne sia, non v’è dubbio che l’universo si stia evolvendo a dovere.
Perciò sta in pace con Dio, qualunque sia il concetto che hai di Lui. E quali che siano i tuoi affanni e aspirazioni, nella chiassosa confusione dell’esistenza, mantieniti in pace col tuo spirito. Nonostante i suoi inganni, travagli e sogni infranti, questo è pur sempre un mondo meraviglioso. Sii prudente. Sforzati d’essere felice.

Manoscritto del 1692

trovato a Baltimora

nell'antica Chiesa di San Paolo

I Confini nelle Relazioni Umane

"Io non posso fare della libertà il mio scopo, se non faccio lo stesso per quella degli altri" J. P. Sartre I  confini psicologici...